C’è chi dice che lo statuto li dimostra tutti, i suoi 45 anni, e ne reclama la rottamazione. Ma ragiona così soltanto perché è prigioniero di un sillogismo che è facile sbugiardare. Premessa maggiore: lo statuto chiuse un ciclo di inattese lotte operaie di cui la storiografia parla come del “secondo biennio rosso”. Premessa minore: il referente dello statuto era la fabbrica fordista. Ergo, lo statuto è un ferrovecchio. Il sillogismo è falso e la deduzione che se ne ricava una sciocchezza, perché lo statuto non ha mai legato la sua vitalità ad un modo di produrre storicamente determinato. Si riconnette invece a valori di carattere permanente e universale la cui vulnerabilità al contatto con le ragioni dell’impresa era simboleggiata dal fordismo, ma che vanno protetti indipendentemente dal variare nel tempo e nello spazio del modello dominante di produzione e organizzazione del lavoro.
Pertanto, la ragione vera della richiesta di rottamare lo statuto bisogna cercarla altrove ed è questa: perduta la rappresentanza politica, il popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose dispone soltanto di una rappresentanza sindacale rissosa – e dunque non ha più il potere di prima. È partendo da questa preliminare riflessione che ritengo di poter sostenere che 45 anni non bastano per esprimere un giudizio definitivo sullo statuto. Non bastano perché, come dirò, la linea di politica del diritto anticipata dallo statuto non ha avuto gli svolgimenti che meritava. Insomma, c’è un Nuovo Mondo che sta ancora aspettando il suo Colombo. Lo statuto, scrisse Massimo D’Antona, “è la legge del sindacato in azienda”. Ma anche Massimo sapeva che l’orizzonte di senso dello statuto è più vasto. Sapeva che lo statuto esprime la consapevolezza che l’impatto delle regole del lavoro sulla vita delle persone eccede il quadro delle relazioni che nascono da un contratto tra privati. Pertanto, anche Massimo sapeva che lo statuto trasferisce nell’ambito di un rapporto instaurato da un contratto di diritto comune il principio costitutivo della società contemporanea che fa del lavoro il passaporto per la cittadinanza. Lo statuto lo ha declinato in chiave di divieti rivolti al datore di lavoro: divieto di perquisire il dipendente, di impadronirsi dei suoi stili di vita e dei suoi stessi pensieri, di discriminarlo; divieto di punirlo se non con modalità capaci di incivilire un primitivismo come il cumulo in un medesimo soggetto dei ruoli di accusatore, giudice e parte lesa….
2015-01-25