Trevico-Torino, viaggio nel Fiat-nam (Scola, 1973). Quando emigra(va)no gli italiani

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1. “Trevico-Torino, viaggio nel Fiat-nam” è un film di quasi 50 anni fa (fu girato nel 1971, anche se fu distribuito nel 1973), di cui è appena uscita una versione digitale restaurata, presentata al 36° Festival del cinema di Torino del 20181. Racconta una storia apparentemente senza epica e senza etica, una storia spoglia di cui è protagonista Fortunato Santospirito, un giovane meridionale (di Trevico) che emigra a Torino per lavorare nella grande Fiat. Lì però troverà soprattutto un’umanità immersa in una lotta quotidiana che spesso prende a bersaglio proprio quel lavoro tanto agognato, ma anche tanto illusorio. Questa umanità appare in effetti immersa in una guerra che ha molto in comune con la coeva guerra del Vietnam (Saigon cade nel 1975) – a cui allude il titolo del film – perché è una guerra che l’invasore non può vincere senza distruggere radicalmente il territorio invaso e i valori o la spinta vitale che l’hanno portato alla sfida. L’emigrato è il punto di vista che Ettore Scola abbraccia integralmente per raccontare questa triste ma struggente vicenda. Il registro di Scola è quello di un documentario, duro, oggettivo, inoppugnabile, che va anche oltre il neorealismo da molti evocato (assai citato il precedente di Rocco, film
di Luchino Visconti del 1960 con analoghi spunti, ma svolgimenti tutt’affatto diversi). Un emigrato nella sua stessa patria – l’unità politica dell’ Italia ha, all’epoca, ormai più di cent’anni – che trova a Torino – in quel periodo capitale industriale – soprattutto ostilità e squallore e, al più, una rabbia diffusa come collante da condividere con altri propri simili.

Anche quando da questa rabbia scaturiscono gesti o esperienze che fanno pensare a solidarietà o altre manifestazioni di umana positività (un accenno di storia d’amore, un ragazzo del bar che offre un caffè in segno di possibile amicizia) il contesto ostile o le distanze di cultura e costumi quotidiani impediscono lo sviluppo di relazioni più ricche e vere. Prevale la crudele avidità dell’affittacamere o la matrice borghese di una ragazza, Vicky, che non sa esprimere altro che una critica socio-politica fredda e petulante, anche se efficace nell’impedire il radicarsi del mito dell’operaio modello nella testa di Fortunato. Gli squarci di lotta politica che attraversano Torino – si tratta di esterni perché la Fiat non permise a Scola di girare dentro la fabbrica (gli interni sono infatti sostituiti da titoloni in stile tazebao, molto anni ‘70) – ci rimandano a un estremismo anch’esso pieno di rabbia, dove l’eco vitale della contestazione si esprime soprattutto con il rosso delle bandiere di Lotta continua. Non manca però qualche cenno anche ad un’altra presenza politica ai cancelli della Fiat, quella dei quadri che fanno il classico proselitismo nelle fila della Cgil o del partito comunista italiano. Attraverso la voce di un prete che mostra un informato apprezzamento per le lotte operaie, forse addirittura si avvertono i prodromi di quel compromesso storico di Berlinguer, che poco dopo l’uscita del film – primavera, gli scritti su Rinascita sono di ottobre – avrebbe provato a imboccare una via diversa per non cadere nella trappola del muro contro muro. In fabbrica però il lavoro produce solo ribellione e conflitti che mettono in scena operai contro altri operai (capisquadra). È il 1973: un anno gravido di venti di crisi. O forse è un po’ prima, se si considera il periodo in cui il film è stato girato2. Comunque si è esaurita la stagione del grande sviluppo industriale. Scola in questo film già non ci parla più dell’emigrazione del boom economico. Piuttosto il suo obiettivo – secondo qualcuno non privo di una certa crudeltà – mette a fuoco l’emigrazione di un’Italia in cui vanno scomparendo antiche comunità solidali (Trevico) e stentano a nascere nuove comunità cittadine. Il film non lancia messaggi di speranza. Piuttosto presagi di un plumbeo futuro.