Il diritto del lavoro, grazie alla sua dottrina e al patrimonio di idee che hanno fatto di questa branca del diritto uno dei più dinamici e intelligenti percorsi normativi di regolazione sociale, torna spesso ad interrogarsi sulle sue origini e sulle sue funzioni. E lo fa soprattutto in relazione al proprio campo di applicazione, dal quale dedurre sia le ragioni storiche e sociali che hanno elevato la fattispecie di subordinazione a figura centrale ed egemone della materia, sia per interrogarsi sui limiti attuali di questa storica prospettiva, nel segno di una più ampia e razionale visione del diritto del lavoro e del suo significato in un’epoca di profondi cambiamenti della società. Oggi, infatti, il lavoro, nella sua dimensione essenziale di attività umana resa a favore di altri, e collocata in un processo produttivo sempre più globale
e tentacolare, soffre la rigidità e l’insufficienza delle categorie oppositive su cui il sistema è stato edificato, e non riesce a diventare l’oggetto di un sistema razionale di tutele che lo colga, al contempo, nella sua unità concettuale e nelle sue diverse forme giuridiche, ovvero – per riprendere una formula costituzionale su cui è caduto presto l’oblio – “in tutte le sue forme e applicazioni”. Furono, da prospettive diverse, Umberto Romagnoli e Giorgio Ghezzi – in anni di pieno fordismo! – a cogliere, con la straordinaria capacità di anticipare le linee di tendenza del diritto del lavoro e delle sue contraddizioni irrisolte, il nucleo fondamentale di questa problematica, un ventennio prima di quanti – in primis Massimo D’Antona – si cimenteranno nel ripensare il campo di applicazione del diritto del lavoro oltrepassando le colonne d’Ercole della fattispecie di subordinazione.