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1. Mentre la pandemia di Covid-19 travolge il mondo, esigendo una risposta globale senza precedenti (e non ancora disponibile), l’idea della Brexit, quale commistione fra autoindulgenza plenaria e cavillosità, si è fulmineamente allontanata dall’attenzione dei decisori politici, ed allo stesso modo da quella dell’opinione pubblica.
Cionondimeno, in occasione dei negoziati per “plasmare un nuovo partenariato” tra Unione europea e Regno Unito faticosamente avviati nella metà del mese di marzo 2020, in sincronia con l’isolamento europeo, il Governo britannico ha riaffermato che non ci sarà alcuna proroga del periodo di transizione post-Brexit (di stand still) oltre la scadenza del 31 dicembre 2020 fissata dall’Accordo di recesso UE-Regno Unito dell’ottobre 2019.
Conformemente all’Accordo, ogni decisione concordata in ordine alla proroga del termine finale dev’essere adottata entro il 1° luglio 2020, quasi sicuramente prima che la pandemia sia stata eradicata e vi sia stato un ritorno alla normalità. Considerate la diminuzione vertiginosa del PIL in tutti i Paesi industrializzati, la sospensione delle attività industriali e commerciali e la storica impennata dei licenziamenti e degli esuberi, gli ideologi della Brexit sembrano preparati a sperimentare la teoria del caos fino al limite conducendo il Regno Unito fuori dall’orbita regolativa dell’Unione ed accompagnandolo in un’epoca di confini, disparità e terapia d’urto sul piano economico a decorrere dal 1° gennaio 2021.
Nel tentativo di comprendere la ragione fondamentale di una simile strategia, il problema delle tutele sociali e del lavoro emerge repentinamente: qualora il Regno Unito serbasse realmente le intenzioni manifestate, e non vi fosse dunque margine per concertare la dilatazione del periodo transitorio sino alla fine del 2021 o fino al 31 dicembre 2022, termine ultimo contemplato dall’Accordo di recesso, allora si avrebbero meno di sei mesi di tempo per stabilire se il Regno Unito sia predisposto a cambiare posizione e ad acconsentire ad un patto di non regresso – ovvero ad una sorta di adeguamento statico – dei parametri del lavoro e di quelli sociali in vigore nell’UE e nel Regno Unito alla scadenza del periodo di transizione. Se il Regno Unito acconsentisse, in condizioni di parità, ad impedire comportamenti antieconomici e forme di dumping sociale, ed altresì a preservare le norme comuni in materia di ambiente, cambiamenti climatici, fiscalità ed aiuti di Stato, si potrebbero ancora far ricredere gli scettici e sarebb