Il quesito referendario sull’art. 18. Corte e promotori tra giudizio di ammissibilità e politica

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1. Ancora una volta il ventaglio di pronunce rese nell’ambito del giudizio di ammissibilità del referendum espone la Corte alla critica dell’opinione pubblica, in ragione di una giurisprudenza sui requisiti del quesito referendario apparentemente criptica ed imprevedibile. 
Questa difficile leggibilità dell’operato del giudice costituzionale in materia di referendum rischia di sommarsi oggi ad un diffuso sentimento di distanza delle istituzioni dalla società, rischiando di contribuire ad approfondire un divario sempre più preoccupante. Non si intende con ciò sostenere la necessità di una ricerca del consenso popolare da parte del giudice costituzionale, fenomeno che sarebbe quanto mai improprio, oltre che estraneo alla funzione della giustizia costituzionale. È superfluo ricordare che il nostro sistema costituzionale non prevede una legittimazione politica per la Corte, ma esclusivamente tecnica, basata sull’autorevolezza complessiva dell’organo, che può derivare dalla elevata competenza tecnico giuridica dei componenti, oltre che dalla coerenza e saggezza degli orientamenti giurisprudenziali. La riflessione nasce tuttavia dalla difficoltà del costituzionalista di spiegare decisioni che giungono a valle di un procedimento lungo e partecipato, come quello della raccolta delle firme per le iniziative referendarie popolari1.

2. Invece, ancora una volta, si giunge con la sentenza 26/17 ad una decisione profondamente controversa in materia di estrema delicatezza, dato anche il valore di “norma manifesto” di una delle disposizioni coinvolte nel quesito2. Si tratta infatti di una decisione vertente su un ennesimo quesito sull’articolo 18 della legge 300/70, dopo che già in passato altri quesiti avevano investito la medesima disciplina3.Il quesito sul quale il principale sindacato italiano ha raccolto tre milioni e trecentomila firme era stato poi intitolato dall’Ufficio centrale per il referendum come “abrogazione di disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi”. I promotori chiedevano l’abrogazione di due gruppi di disposizioni, con ambiti applicativi differenti, regolanti complessivamente i due binari paralleli di disciplina degli strumenti di tutela del lavoratore contro i licenziamenti illegittimi. Il quesito chiedeva in particolare l’abrogazione di alcuni frammenti delle disposizioni riunite nell’art. 18 della legge 300/70 (Statuto dei lavoratori, modificato dalla legge 92/12, cd. legge Fornero), nonché dell’intero testo del d.lgs. 23/15 (disciplina del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti – attuativo del Jobs Act)4. Questo primo dato già avrebbe potuto indurre a dubitare dell’ammissibilità di un quesito così formulato, dovendosi tener conto del requisito dell’omogeneità posto dalla Corte Costituzionale tra i limiti all’ammissibilità del referendum elaborati nella sua oramai quasi quarantennale giurisprudenza, a partire dalla sentenza 16/78.
Il criterio dell’omogeneità richiede, infatti, che non si riuniscano in un unico quesito più disposizioni aventi oggetto diverso, sulle quali l’elettore potrebbe voler esprimere il proprio voto in modo difforme. Ciò a tutela della libertà del voto di cui all’art. 48 Cost. (“il voto è personale ed eguale, libero e segreto”), dovendosi intendere tale libertà non solo in senso fisico, ma anche come libertà da ogni coartazione nell’esercizio voto.