La Corte finalmente costituzionalizza la contrattazione per il lavoro pubblico. E la retribuzione?

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Corte Costituzionale – Sentenza 23 luglio 2015 n. 178 – Pres. Criscuolo – Red. Sciarra

Impiego pubblico – Misure di contenimento della spesa – Estensione fino al 31 dicembre 2014 delle vigenti disposizioni mirate a bloccare l’incremento dei trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti e dell’ammontare complessivo delle risorse destinate ai trattamenti accessori e gli effetti economici delle progressioni di carriera – Regime di prolungata sospensione della contrattazione collettiva, imposto dal legislatore per il periodo 2010-2014 attraverso norme susseguitesi senza soluzione di continuità e accomunate da analoga direzione finalistica – Misure di “blocco” strutturale che trascendono i limiti della transitorietà e dell’eccezionalità tracciati dalla giurisprudenza costituzionale – Asserita violazione del principio della proporzionalità della retribuzione al lavoro prestato – Mancanza da parte dei rimettenti di una valutazione complessiva delle voci che compongono il trattamento del lavoratore in un arco temporale di significativa ampiezza – Argomenti insufficienti a dimostrare l’irragionevole sacrificio del principio di proporzionalità della retribuzione Non fondatezza della questione – Violazione della libertà sindacale – Illegittimità costituzionale sopravvenuta, a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e nei termini indicati in motivazione.

Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 36, co. 1, Cost., dell’art. 16, co 1, lett. b), del d.l. 6 luglio 2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dall’art. 1, co. 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111), poiché il giudizio sulla conformità all’art. 36 Cost. non può essere svolto in relazione a singoli istituti né limitatamente a periodi brevi, in quanto si deve valutare l’insieme delle voci che compongono il trattamento complessivo del lavoratore in un arco temporale di una qualche significativa ampiezza, alla luce del canone della onnicomprensività. Le disposizioni censurate, tra l’altro, hanno cessato di operare a decorrere dal 1° gennaio 2015. Invece, è costituzionalmente illegittimo, a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, il regime di sospensione della contrattazione collettiva nel pubblico impiego per il periodo 2010-2014, risultante dagli artt. 16, co. 1, lett. b), del d.l. 6 luglio 2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dall’art. 1, co. 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111), come specificato dall’art. 1, co. 1, lett. c), primo periodo, del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122; 1, co. 453, della legge 27 dicembre 2013, n. 147; 1, co. 254, della legge 23 dicembre 2014, n. 190. Le norme impugnate dai giudici rimettenti e le norme sopravvenute della legge di stabilità per il 2015, susseguitesi senza soluzione di continuità e accomunate da analoga direzione finalistica, violano la libertà sindacale garantita dall’art. 39, co. 1, Cost. (Massima non ufficiale)

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1. La sentenza della Corte costituzionale n. 178 del 23 luglio 2015 è molto importante sul piano dei principi e delle ricostruzioni sistematiche. Essa però è probabilmente destinata a deludere chi si aspettava conseguenze concrete sul piano delle tutele dei diritti patrimoniali dei lavoratori, in particolare di quelli del comparto ministeri (cui attiene essenzialmente il giudizio a quo). Si potrebbe dire, a voler essere un po’ cattivi, che si tratta di una sentenza con la quale la Consulta salva l’anima lavoristica della nostra Carta costituzionale senza però toccare gli equilibri politici ed economico-finanziari che negli ultimi anni sono stati caratterizzati da un lungo e progressivo congelamento degli stipendi dei dipendenti pubblici (e tra questi dei lavoratori dei ministeri).