“In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale discrezionalità si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima. All’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza. La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse”.
È questo un passaggio significativo, l’enunciazione di un vero principio di diritto, che sorregge l’argomentazione della sentenza 194/2018 con cui la Corte Costituzionale censurava alcune disposizioni del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, il Jobs act. La pronuncia di incostituzionalità ha subito sollecitato un intenso dibattito nella dottrina specialistica ma ai margini, con maggiore distacco e pacatezza, è forse possibile una riflessione teorica che parta dalla domanda: quali sono i limiti regolativi della legislazione?