Se l’amore per la specie fa perdere di vista il genere (a proposito del caso Foodora)

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I. Dal lavoro subordinato, si sa, ha preso nome un ramo del diritto e, all’epoca del governo Badoglio, una partizione accademica del sapere giuridico. Viceversa, il lavoro autonomo non è mai stato in cima ai pensieri né dei detentori del potere di legiferare né dei titolari di cattedre universitarie. Infatti, ha dovuto accontentarsi della parsimoniosa disciplina del codice civile (artt. 2222-2228) ed ha sempre soggiornato ai margini della didattica. Anch’io di solito, a lezione, me ne occupavo di striscio e soltanto per segnalare che gli esclusi dalla tutela degli “altri” lavoratori non avevano mai cessato di premere non senza successo sulle frontiere del diritto del lavoro. Larga infatti era la condivisione da parte degli operatori giuridici, e segnatamente dei giudici di merito, di quella che – in un manuale scritto tanti anni fa con Giorgio Ghezzi – chiamavo “cultura del sospetto”. Il sospetto che gli imprenditori fossero gente di pochi scrupoli e molto talento truffaldino che appena può, inter alia si appropria dei vantaggi del lavoro dipendente senza pagarne i costi.

Sarebbe un errore ritenere che si trattasse semplicemente di una cultura sovraccarica di pregiudizi. In primo luogo, era alimentata dalla certezza, diventata ormai senso comune, che l’idea di lavorare senza padrone fosse diventata un inutile mito. Inoltre, l’esperienza ha sempre insegnato che scostamenti più o meno accentuati tra il pattuito e la situazione effettivamente stabilizzatasi in costanza di rapporti di durata, influenzabili in quanto tali da una quantità di fattori né prevedibili né controllabili, non sono infrequenti né anomali. Fatto sta che non hanno mai smesso di fioccare sentenze di giudici i quali, raccolte le prove della soggezione del prestatore d’opera a  vincoli di subordinazione, dichiaravano efficace tra le parti l’ordinario contratto di lavoro salariato. Complessa o di routine che fosse, l’indagine giudiziaria ha sempre somigliato a una caccia agli indizi della subordinazione tra i quali ha sempre primeggiato il dato della “continuità della prestazione” a favore del partner contrattuale. Per questo, i giudici si erano abituati a vestirsi da detective. Per quanto grossolana, la cultura del sospetto è stata tutt’altro che innocua. Tant’è che, a un certo punto, è sembrata addirittura espressione di un favor iuris a classificare i rapporti di lavoro nella categoria della subordinazione: presunto, ma egualmente minaccioso per la stessa agibilità del contratto di lavoro autonomo.

Infatti, negli anni ’70 il legislatore dovette intervenire, spingendosi a riconoscerne la genuinità anche nelle ipotesi in cui le parti convengono che il lavoratore agirà come il più subordinato dei lavoratori autonomi ed insieme come il più autonomo dei lavoratori subordinati. La trasformazione del prestatore d’opera in un lavoratore che gli operatori giuridici chiamano “para-subordinato” si compie allorché il contratto di scambio tra la realizzazione dell’opus e il corrispettivo instaura un rapporto di “collaborazione” non solo “prevalentemente personale”, ma anche “continuativa e coordinata”. In seguito a questa scelta legislativa, numerose situazioni provviste di indizi che, coi parametri della cultura del sospetto, sarebbero state sufficienti per ricondurle alla categoria del lavoro subordinato restano inchiodate nella categoria opposta. In effetti, il legislatore aveva negato che l’imprenditore avesse a sua disposizione soltanto la forma di collaborazione tipicizzata dall’art. 2094 cod. civ. Poteva disporre anche di collaborazioni giuridicamente alternative, ossia aveva la facoltà di sostituire collaboratori organicamente inseriti nell’impresa con collaboratori dell’impresa “senza vincolo di subordinazione (art. 2222 cod. civ.).