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1. Frequentemente il lavoro sommerso – ovvero nero, irregolare, informale – viene rappresentato come un vero e proprio “anti diritto del lavoro”, come il lato oscuro del mercato del lavoro e, dunque, del sistema di regole che quello variamente presidia in tutte le economie del mondo, avanzate e non.
Sul piano dei valori giuridici questa raffigurazione, oltre che corretta, è di sicuro anche rispondente ad una certa percezione sociale, almeno dei fenomeni più estremi riconducibili alla definizione sintetica di “undeclared work”. Tuttavia sappiamo che i problemi del lavoro sommerso non si prestano ad una rappresentazione piana e lineare. Essi, con tutto il carico di questioni che si portano appresso, rimandano ad ambiti plurivalenti e “metamorfi”: vengono in causa aspetti e profili talvolta contraddittori e divergenti tra loro, che richiedono accorte operazioni di contestualizzazione reale. Contestualizzazione che, viceversa, troppo spesso resta sospesa tra una letteratura scientifica densa di stime tecniche, certe volte aride e non sempre puntuali, policy grondanti una cartacea retorica “umanista” priva di concretezza attuativa e una pubblicistica spesso descrittiva nonché, a livello informativo, piuttosto superficiale.
Un tale stato di sospensione è senza dubbio anche conseguenza del fatto che il lavoro sommerso non è fenomeno a dimensione unica: al punto che – polemiche e dibattito recente – le nuove regole Eurostat di calcolo del Pil espressamente richiedono di includere nel valore della ricchezza nazionale l’economia sommersa e, addirittura, quella illegale. Si parla di rivalutazione; e dalle prime stime risulta che l’economia sommersa in Italia – lavoro irregolare e non denunciato – valga all’incirca 187 miliari di euro: l’11,5% del Pil……..